Approfondimento: Il realismo in Dragonlance

  Gli articoli che pubblico su questo blog non sono pezzi di un piano editoriale definito e strutturato, principalmente ho iniziato sei anni fa quando mi è venuta l’idea di raccontare le mie partite con i vecchi videogiochi ufficiali di D&D, e ho chiamato tutto questo “Diari d’avventura”, cosa neppure così originale. Poi come al solito mi sono fatto prendere la mano, e tutti i miei pallini hanno iniziato a dettare le “regole”. Paolo Augusto (non è il mio vero nome), nacque come un blog dove indagavo la dimensione dell’immaginario umano, e questi videogiochi con alle loro spalle (e pure ai fianchi) tanti libri e tante pubblicazioni si adattavano dannatamente bene allo scopo del blog. Poi ho avuto l’idea di creare un sito completamente a parte (che è questo, dove state leggendo), e sono quasi alla fine del lungo lavoro di spostamento degli articoli da un sito all’altro, e della loro metodica e progressiva diffusione sui social.

  Così in quest’ultimo periodo gli articoli hanno assunto una certa alternanza, a volte mi concentro sui videogiochi tali e quali si presentano alla mia esperienza diretta, altre volte divago e approfondisco aspetti diversi che riguardano sempre lo stesso titolo (o prodotto dell’immaginario). Questo perché, almeno per quanto riguarda Pool of Radiance, Heroes of the Lance, Curse of the Azure Bonds e Dragons of Flame, mi sono ritrovato ad avere a che fare con storie uniche dotata di tre dimensioni (o formati) diverse: una videoludica, una “ludico-ruolistica” e l’ultima di narrativa tradizionale. 

  Ho già scritto in precedenza, e a più riprese, come Dragons of Flame (“i draghi delle fiamme”) è racchiuso tutto nel Libro II del volume I Draghi del Crepuscolo d’Autunno, ma presenta delle «versioni diverse» nella storia tra le tre dimensioni (o formati) in cui è stato realizzato. A partire da questo dato credo sia questo il momento giusto per parlare del «realismo» come struttura letteraria in Dragonlance, proprio perché le differenze di versioni nascono dalle esigenze poste da questo modo di scrivere.

  La bella saga di Dragonlance vale molto di più di un’etichettatura di “letteratura per ragazzi” o per appassionati di settore. È stata senza dubbio alcuno un successo editoriale della narrativa Fantasy Classica nel quale i suoi autori hanno introdotto elementi di assoluta originalità, così il risultato è qualcosa di molto superiore a una semplice “narrativa d’evasione” – cioè libri che si leggono per passare il tempo libero, ma una volta terminati non hanno un destino molto diverso dall’occupare un posto sugli scaffali o essere rimessi in circolo nei mercatini dell’usato, perché, e in sostanza, prodotti d’intrattenimento “di massa”, perciò inevitabilmente “massificati” o serializzati, in breve: uguali a mille altri.

  Infine, anche per introdurre meglio gli aspetti più rilevanti della saga, Dragonlance non furono una serie di “romanzi” come molti altri, ma un esplicito e diretto esempio di meta-letteratura, una vera e propria opera collettiva a produzione iper-testuale perché la sua ossatura è un universo di regole ben precise e compatto: il Gioco di Ruolo Advanced Dungeons & Dragons Prima Edizione; leggendo il romanzo con i manuali citati accanto e usandoli come riferimenti, si vede perfettamente come “tutto torna”, tutto rispetta della articolatissime linee-guida create da un autore diverso da Margareth Weiss o Tracy Hickman, fu Gary Gygax (& co.) a dare il via al tutto.

  Non ci può essere dubbio in merito sul fatto che l’impianto fondamentale delle Cronache di Dragonlance rispetti in tutto e per tutto quello delle grandi saghe epiche, ma di sensibilità moderna; abbiamo infatti gli eroi, le gesta, gli amori, ecc., più quella dimensione planetaria/millenarista su cui tutta la trama e tutti i suoi possibili fili convergono, che in realtà non compare quasi per nulla nei tradizionali testi dell’Antichità nostrana, come l’Iliade e l’Odissea, le numerose saghe della mitologia norrena o i poemi ariosteschi e tassiani; pure dove c’era una forte e marcata dimensione religiosa la lotta “definitiva” tra bene e male non era così importante. Riguardo l’elemento religioso in Dragolance, il punto di partenza, ossia un mondo senza divinità, non lo considero un dato primario, semmai è un mezzo per costruire il nesso fondamentale di tutta le saga. In verità preti e sacerdoti non sono mai state figure su cui scrittori e poeti hanno mai puntato troppo, neanche nella Fantasy Classica e il motivo mi pare ovvio, ma per altrettante ovvie ragioni Dungeons & Dragons aveva fatto dei Chierici una Classe portante e indispensabile delle società e dei suoi mondi immaginari, così rinunciarvi non era un’operazione facile. 

  Come ho già scritto in precedenza, le Cronache di Dragonlance sono visibilmente venate da un influsso Post-Apocalittico, in parte perché scritte nei primi anni ‘80 da persone cresciute in America che aveva ripetutamente attraversato fobie e paranoie di catastrofi nucleari durante i periodi di tensione con l’URSS (e tanto cinema e letteratura ripresero questi sentimenti) e probabilmente anche perché Terry Brooks aveva pubblicato il primo libro del suo lungo ciclo di Shannara un anno prima dell’uscita de I Draghi del Crepuscolo d’Autunno, è quindi plausibile un grosso “prestito” letterario per gli autori di Dragonlance. Perciò un mondo basato sulle regole di D&D senza i Chierici e le divinità è indubbiamente un mondo stravolto, uno dov’è successo qualcosa di apocalittico. Il ritorno della religione in modo attivo è la migliore scintilla per mettere in moto una saga epica.

  Le Cronache di Dragonlance sembrano essere anche “il posto” dove gli autori si sbizzarrirono con la fantasia offrendo scenari raramente utilizzati per una storia fantastica; non c’è nulla di davvero icastico della Sword & Sorcery precedente in questi libri, come per esempio le giungle torride e asfissianti, i deserti infuocati, i templi antichi, o castelli o torri di stregoni pericolosi; c’è invece una realtà molto concreta che sembra ricordare soprattutto il paese dove sono nati gli autori, grazie alle vaste praterie descritte circondate da altipiani erosi dal vento (il West), o i boschi di pioppi sempre molto comuni in America settentrionale accostati da villaggi aerei (Solace) o città sprofondate sotto la costa del mare (Xak-Tsaroth) i cui edifici sono tutti quanti inclinati su un lato a causa del maremoto e dello scivolamento della faglia. Arriviamo fino a Pax Tharkas, una fortezza probabilmente immaginata da Hickman, che fece gli studi da ingegnere, con la forma di una diga perché forse effettivamente è il tipo di costruzione migliore per fortificare e mettere militarmente in sicurezza quel luogo – oggi senza esitazione possiamo definirlo come un dettaglio Steampunk.

  Ma l’aspetto più meritevole d’attenzione sono i comportamenti di quasi tutti i personaggi e dei protagonisti secondari descritti con immediatezza e schiettezza dagli autori. Personalmente ho sempre usato per i componenti della Compagnia della Lancia l’appellativo «eroi» soprattutto perché è lo stesso usato costantemente nei Moduli d’Avventura; sono sempre stati definiti «heroes», quasi mai «player characters» (personaggi giocanti o PG). Eppure, nonostante tutti loro rappresentino in modo inappuntabile gli aspetti positivi degli avventurieri che accettano una missione di supremo valore morale (magari a esclusione del cupo Raistlin), nessuno di loro manifesta in modo spiccato e integrale gli usi alteri, austeri, distaccati e se vogliamo “aristocratici” degli eroi più classici, quelli “senza macchia e senza paura”. Così non abbiamo alcun personaggio che ricorda da vicino un Aragon, un Elrond, un Erlic di Melniboné e nemmeno un Conan il Barbaro (per citarli quasi tutti). Questo è sicuramente causa del fatto che nessuno degli otto protagonisti principali può vantare di provenire da un ceto altolocato delle società di Krynn – di cui il primo romanzo parla ben poco – non abbiamo tra loro nessun principe, duca, barone o discendente di…, il personaggio di più nobili natali è Sturm, Cavaliere di Solamnia, cioè di un ordine caduto in disgrazia e in discredito agli occhi della gente comune. Ma nonostante tutte le fisime imposte dal suo codice, neppure Sturm è un personaggio perennemente accigliato e rigido, anche lui ha momenti di completa “disinvoltura” come tutti gli altri che, a discapito della tragica temperie, non perdono affatto la loro «umana quotidianeità»; in altre parole tutti i personaggi sono descritti ad atteggiarsi come un qualunque altro essere umano farebbe, con i loro vizi, le loro debolezze, idiosincrasie, modi di fare e di dire, anche con la voglia di scherzare, seguire i desideri sessuali o trovare un momento di leggerezza lasciandosi andare e, non in ultimo, sbagliare e combinare disastri. 

  Personalmente non credo che tutto questo debba essere semplicisticamente (e brutalmente) ridotto a una scelta di «registro» da parte degli autori “colloquiale e quotidiano” per rendere più accattivante e piacevole la lettura del romanzo. Ne fossero stati consapevoli o meno, i due delle Cronache di Dragonlance ebbero un illustre precedente nel loro modo di scrivere, proprio nel ramo della Fantasy Classica.

  Nel 2016 ho studiato con molta attenzione il romanzo di Tolkien Lo Hobbit sotto il profilo delle tecniche della sua scrittura. Ne ho ricavano un modesto saggio di 70 pagine dal titolo Bosco Atro: Notizie dall’Interno (le tecniche della mitopoiesi di Tolkien) – il link qui evidenziato porta a una versione consultabile integralmente online. Un tema che non ho potuto approfondire sul saggio, poiché si limitava solo a Lo Hobbit, era come, attraverso la chiave di lettura dei «moduli stilistici», cioè il linguaggio usato, la grammatica, le forme retoriche ecc., se mettiamo da parte la differenza evidente dei generi tra Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli (il primo una “fiaba”, il secondo un “romanzo epico”), proprio Lo Hobbit appare un testo più moderno del secondo. Più moderno nel senso che si avvicina molto per forme letterarie ai romanzi più comuni e diffusi, ai Best-Seller, mentre Il Signore degli Anelli risulta oggettivamente un testo con stampi più arcaici, non solo nel vocabolario e nella prosa, ma anche nel suo svolgimento complessivo. Insomma: ne Lo Hobbit succedono spesso cose ingarbugliate, i personaggi fanno dei veri e propri pasticci e a partire da questo tutto si movimenta con risultati finali raggiunti quasi per caso, o come conseguenze di imprevisti mentre, ne Il Signore degli Anelli, le cose procedono con una precisa linearità, la missione finale viene completata con un piano provvidenziale sotto.

  Esprimendo questi concetti con altre parole, si può dire che Lo Hobbit è un romanzo «realista», cioè racconta le cose così come sono andate, senza abbellimenti, drammatizzazioni o giustificazioni, mentre Il Signore degli Anelli no. Per di più, partendo dall’assunto ben noto tra tutti i cultori della Fantasy per il quale queste due opere di Tolkien parlano della stessa identica realtà virtuale, si può persino arrivare a dire che Il Signore degli Anelli non racconta affatto la verità dei fatti sulla guerra che pose fine a Sauron e alla Terza Era, ma somiglia molto di più a quelle saghe, epopee o cronache medievali scritte per celebrare i fasti dei signori vittoriosi in guerra, testi che ovviamente “trasfiguravano” la realtà dei fatti per essere più compiacenti verso la personalità che celebravano.

  Questa digressione mi serve per spiegare meglio ancora come anche le Cronache di Dragonlance sembrano essere state scritte con lo stesso grado di realismo de Lo Hobbit. Dei personaggi primari e secondari leggiamo cose che non sarebbero di nessun interesse in un romanzo “epico” vero e proprio; si tratta di dettagli personali, intimi, anche reazioni momentanee che effettivamente sarebbero assolutamente trascurabili se l’intenzione degli autori si fosse concentrata sull’azione avventurosa e combattimenti mozzafiato.

  Nell’articolo precedente questo ho preso in esame il capitolo 11 del Libro II del primo romanzo della saga. A quell’altezza i personaggi di Fizban e Tasslehoff si staccano dal resto del gruppo in modo arrischiato e riescono a infiltrarsi nella fortezza per dei cunicoli secondari. Senza essere visti da nessuno riescono a trovare un passaggio di servizio che li porta fin dietro la sala che fa da luogo di udienza di Verminaard, il signore dei draqhi di questa regione, e lì riescono a sbirciare una scena in cui presenti Verminaard, il drago Ember (o Pyros) e il Fewmaster Toede. Verminaard è un chierico malvagio, indossa sempre la sua armatura di scaglie blu e nere con un elmo dalle grandi corna semicurve che esalta la sua statura e il suo fisico muscoloso. Non è il “nemico numero uno”, ma solo un generale i cui ordini attualmente richiedono che conquisti tutta la regione annientando i qualinesti e che catturi il chierico di Mishakal, ossia Goldmoon. L’hobgoblin Toede, suo ufficiale (ho proposto che il suo grado possa essere tradotto con “signorotto” o “sottocapo”) è responsabile della fuga di Goldmoon e dei suoi compagni. Toede crede di poter placare l’inevitabile ira di Verminaard consegnando a lui il nano di fosso Sestum (che aiutò materialmente gli eroi a scappare) e uno strano uomo che ritiene essere una spia. In effetti quest’uomo è davvero importante, il drago Pyros è a conoscenza di informazioni segrete e lo riconosce come l’”Everman”  o «l’uomo dalla gemma verde», un obiettivo così importante per il quale il drago ha l’ordine di tacerne persino a Verminaard. Quest’ultimo vede un uomo ridotto in pessime condizioni che sembra sordo e muto, non può immaginare nulla perciò fissa da dietro la sua maschera impressionante l’hobgoblin stupido e maldestro e gli dice: «quindi tu mi stai consegnando una spia che non può sentire e non può parlare…» e Verminaard fu incapace di trattenere una risata sotto il suo elmo.

  Non ridere di fronte a una cosa del genere è difficile, tuttavia bisogna possedere una sensibilità umana in grado di cogliere il lato ironico della vicenda, se Verminaard fosse stato un «mostro alieno» probabilmente non avrebbe reagito così.

  Gli autori hanno scelto di creare queste situazioni soltanto per rendere più divertente la lettura? Probabilmente sì, ma non può essere negato che i “fatti” molto spesso si manifestano sotto questa forma, anche durante le grandi imprese, anche nei momenti a più alta tensione «realisticamente» gli uomini e altri tipi di esseri che usano la ragione in modo pressapoco simile, fanno di queste cose. Per di più va considerato che il romanzo viene realizzato anche come la narrazione di un’esperienza di gioco, concreta o possibile, e le persone quando giocano cercano di divertirsi; non credo accada molto spesso che durante una sessione di GdR i partecipanti provino il sentimento catartico della Tragedia dei tempi di Eschilo.

  La realtà è composta da molte cose che appaiono ridicole agli occhi di chi è capace di superare alcuni limiti del vivere e di “elevarsi” a stadi superiori – ma questo non garantisce che il punto di partenza, cioè il considerare gli esseri viventi disposti su scale di valore e gradini di status non sia una concezione ridicola di per sé. Quindi l’hobgoblin Toede è ridicolo perché non ne fa una giusta, neppure nella “versione alternativa” della storia, nella quale invece di portare l’Everman da Verminaard rapisce Laurana; il signore dei draghi non può apprezzare neppure questo gesto (come si legge nel Modulo d’Avventura DL2 dov’è possibile spiare l’udienza come nel romanzo ma con un soggetto di discussione diverso) perché sta per invadere Qualinost e allarmare gli elfi è una mossa tatticamente stupida, data l’intenzione di distruggerli tutti nel più breve tempo possibile.

  Gli aghar sono ridicoli punto e basta. I nani di fosso non sono una sottorazza inventata all’uopo per Krynn, già nel D&D degli anni ‘70 Gygax aveva suddiviso i nani in di montagna, di collina e di fosso (vedi il Supplemento Greyhawk del 1976). Probabilmente gli aghar di Dragonlance sono un sottotipo modificato e prosperano molto bene nell’Era della Disperazione perché ci sono molti posti spopolati e disertati da altre comunità. Per questo troviamo i nani di fosso anche a Pax Tharkas: dopo che gli elfi l’abbandonarono, una piccola colonia di aghar fece della fortezza la loro tana. Sono popolo di esseri piccoli e scarsi in combattimento, facile da ridurre in schiavitù e tutto sommato si rivelano utili nei lavori più umili, perciò i draconici non li hanno cacciati.

  Reale è trovare Pax Tharkas quasi vuota perché gli eserciti di Verminaard si sono mossi verso Qualinost e il contingente di servizio rimasto, ma soprattutto i due draghi rossi, sono più che sufficienti per tenere a bada gli uomini. Nella fortezza ci sono 25 kapac, 7 baaz, 44 hobgoblin, 18 aghar in tutto; 300 uomini del nord, 149 donne, 180 bambini e 287 donne delle tribù barbare delle pianure (ma forse quest’ultimo dato è un errore di stampa del Modulo DL2). Con questi numeri sembra fattibile anche proseguire scegliendo il modo più rozzo, cioè tentando di farsi strada nella fortezza fino a ripulirla completamente – come in parte siamo obbligati a fare nel videogioco. Ma basta dare un’occhiata alle statistiche dei due draghi per capire come anche solo uno di loro è un avversario non alla portata del gruppo, nonostante l’Ammazzadraghi, inoltre Verminaard non resterà con le mani in mano.

  D’altronde quando si stabilì il piano della missione non si era mai parlato di vincere una guerra o una battaglia, ma soltanto di mettere in difficoltà l’esercito draconico per consentire agli elfi di guadagnare tempo per scappare e salvare centinaia di esseri umani. Quindi mentre nel videogioco la Laurana che abbiamo liberato ci spinge a cercare il drago Flamestrike per liberare i bambini, sul Modulo d’Avventura (con o senza la liberazione della principessa elfica) abbiamo immediatamente l’opportunità di entrare nelle stanze dove è imprigionato un numero di donne e di avere il loro aiuto e consiglio. Queste donne dicono innanzitutto che il Drago – e questo appare strano solo fino a un certo punto – non va combattuto, perché si tratta di una bestia davvero molto vecchia e quasi del tutto impazzita. Mataflume (secondo nome del drago) si è così affezionata ai bambini che non gli farà alcun male, diversamente a chi potrebbe minacciarli o portarglieli via. Quindi grazie alla bassa sorveglianza nella fortezza diventa intelligente l’idea di travestirsi da donne per raggiungere gli uomini nelle miniere.